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Il quadro normativo relativo alla tutela delle minoranze linguistiche in Italia è stato a lungo influenzato dalla complessa esperienza storica dello Stato italiano, con una distinzione netta tra le "minoranze linguistiche riconosciute", situate principalmente nelle zone di confine e tutelate anche a livello internazionale, e le "minoranze linguistiche non riconosciute".
Questa divisione, sostenuta dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, ha creato un forte squilibrio nelle fonti giuridiche: le prime godevano di uno status privilegiato grazie a obblighi internazionali e disposizioni costituzionali, mentre le seconde rimanevano in una condizione di disinteresse istituzionale.
Il legislatore, infatti, ha tradizionalmente riservato maggiore attenzione alle cosiddette "minoranze nazionali", considerando la questione linguistica in questi contesti come un elemento di specialità istituzionale. In contrasto, il trattamento riservato agli altri gruppi minoritari è stato spesso marginale, come dimostrato dallo Statuto speciale della Sardegna, che non fa alcun riferimento alla questione linguistica né attribuisce competenze legislative specifiche al riguardo.
È solo negli anni Novanta che, grazie a una proposta di legge di iniziativa popolare, il Consiglio regionale della Sardegna approvò, dopo un percorso lungo e complesso, la legge regionale n. 26 del 15 ottobre 1997. Con questa norma, per la prima volta, la Regione riconosceva pari dignità alla lingua sarda e alle altre lingue alloglotte dell’isola rispetto all’italiano, considerandole un "bene fondamentale da valorizzare".
Due anni più tardi, il Parlamento italiano approvava la legge n. 482 del 1999, stabilendo uno statuto di tutela per tutte le minoranze linguistiche riconosciute, includendo tra queste anche i parlanti il sardo e il catalano. La Corte costituzionale, dopo una fase iniziale caratterizzata da un’interpretazione restrittiva, che attribuiva esclusivamente al legislatore statale la competenza in materia, ha progressivamente riconosciuto un ruolo importante anche alle regioni, pur con limitazioni, come prescritto dall’articolo 6 della Costituzione.
Nonostante questi passi avanti, la lingua sarda, malgrado la legge del 1997 che ne sancisce la pari dignità con l’italiano, rimane tuttora relegata a una condizione di tutela formale, senza una reale applicazione concreta.
Un documento ufficiale della provincia di Cagliari del 2015 ci ricorda quanta strada c’è da fare per passare da una tutela formale ad una sostanziale, evidenziando varie criticità:
- lo studio dell’Italiano consente di giungere a una laurea, a quella in lettere; lo studio del sardo a nessuna laurea;
- dunque per lo studio della lingua italiana è disponibile un cospicuo parco insegnanti laureati e abilitati; per il Sardo no;
- l’Italiano è materia obbligatoria, il sardo no;
- l’Italiano è presente quotidianamente nelle trasmissioni radiotelevisive pubbliche, il sardo no;
- di regola tutti i cartelli indicatori delle strade statali, provinciali e comunali sono in Italiano, ma non in Sardo
La gestione delle lingue minoritarie, come evidenziato, rappresenta una questione prevalentemente politica. Da un lato, lo Stato centrale deve garantire l'unità nazionale e una gestione equilibrata delle risorse, dall’altro spesso si è opposto a richieste di maggiore tutela e valorizzazione dei patrimoni culturali locali. Questo contrasto ha influito negativamente sulle istanze di molte regioni, minoranze e comunità locali.
Un esempio significativo riguarda la toponomastica sarda: nel 2013, il Ministero delle Infrastrutture emanò una direttiva che invitava i comuni a rimuovere i toponimi in lingua sarda dalla segnaletica locale, ritenendo che la cartellonistica bilingue fosse incompatibile con quanto previsto dallo Statuto Speciale della Sardegna, poiché puntava a un bilinguismo perfetto non contemplato dalla normativa centrale.
Tuttavia, l’articolo 24 della Legge regionale n. 26 del 1997 prevede specifici interventi a favore del ripristino della toponomastica in lingua sarda. Questo ha portato a un conflitto di competenze tra lo Stato centrale e la Regione sulla gestione del patrimonio linguistico e culturale. Parte di questo conflitto è stata risolta nel 2015, quando un decreto legislativo del Consiglio dei Ministri ha trasferito alla Regione la responsabilità della tutela delle lingue e delle culture delle minoranze storiche.
La necessità di colmare le lacune nella tutela del patrimonio linguistico sardo ha portato nel 2018 alla presentazione di un Testo Unico in Regione, frutto di quattro anni di lavoro consiliare e basato su numerose proposte di legge. Dopo ulteriori modifiche e un acceso dibattito, il 3 luglio 2018 è stata approvata la Legge Regionale n. 22, intitolata “Disciplina della politica linguistica regionale”. Questa legge rappresenta un ulteriore passo avanti nella promozione e valorizzazione delle lingue minoritarie in Sardegna.
La Legge Regionale n. 22 del 2018, che ha abrogato la precedente Legge n. 26 del 1997, si propone come una normativa fondamentale per la tutela e promozione delle lingue minoritarie in Sardegna. Tra i punti salienti, afferma che l'identità linguistica del popolo sardo è un "bene primario" e che il suo riconoscimento è essenziale per il progresso personale e sociale. La legge stabilisce i principi su cui si fonda la politica linguistica regionale: trasparenza, etica pubblica, partecipazione democratica, razionalizzazione ed efficacia degli interventi.
Nella nuova normativa, la lingua sarda, insieme al catalano di Alghero al gallurese, sassarese e tabarchino, viene considerata parte integrante del patrimonio immateriale della Sardegna, e la Regione si impegna ad adottare tutte le misure necessarie per la loro tutela, promozione e diffusione. Vengono inoltre disciplinate le modalità per l'insegnamento della storia, letteratura e altre discipline legate alla Sardegna, nonché la valorizzazione delle lingue locali.
Nonostante questi obiettivi ambiziosi, la legge ha generato un acceso dibattito durante il suo percorso di approvazione. Molti critici sottolineano che il testo approvato risulta più vago e meno incisivo rispetto a quanto auspicato dai promotori originari. Le principali controversie riguardano due questioni: la prima è la presunta necessità di standardizzare la lingua sarda, un tema divisivo che ha suscitato ampie discussioni tra linguisti e politici; la seconda riguarda le rivendicazioni delle altre comunità linguistiche dell’isola, come i parlanti di gallurese, sassarese e tabarchino, che temono di essere marginalizzati rispetto al sardo e al catalano.
Il dibattito ha coinvolto principalmente rappresentanti politici, accademici e gruppi di interesse, ma è stato caratterizzato da una scarsa partecipazione dell’opinione pubblica. I media, che avrebbero potuto amplificare la questione, hanno invece mostrato scarso interesse, con pochi articoli pubblicati, spesso fuorvianti, che non hanno contribuito a informare adeguatamente la cittadinanza.
La standardizzazione della lingua sarda
Il tema della frammentazione linguistica e della mancanza di un'unità ortografica del sardo è uno dei principali ostacoli alla sua standardizzazione e diffusione, specialmente nel contesto educativo e amministrativo. La lingua sarda è caratterizzata da una grande varietà di dialetti e da due principali macro-varianti: il logudorese (settentrionale) e il campidanese (meridionale). Queste differenze rendono complessa la creazione di uno standard unico che possa essere accettato e usato da tutta la popolazione sarda.
Nel corso degli anni, ci sono stati diversi tentativi di stabilire una lingua standard per il sardo, tra cui la Limba Sarda Unificada (LSU) e la Limba Sarda Comuna (LSC).Tuttavia, entrambi gli standard sono stati oggetto di critiche poiché percepiti come eccessivamente orientati verso la variante logudorese, risultando quindi meno rappresentativi delle varietà linguistiche campidanesi.
La LSU, proposta nel 2001, è stata subito ritirata poiché accusata di essere un tentativo maldestro di imporre la variante logudorese come lingua sarda standard, nonostante fosse presentata come un modello che rappresentava tutte le varietà locali. Anche la LSC, introdotta nel 2006 per l'uso sperimentale negli atti amministrativi regionali, è stata criticata per la stessa ragione. è stata creata partendo dalle varietà cosiddette di limba de mesania, tuttavia studi linguistici hanno dimostrato che la distanza tra la LSC e i dialetti logudoresi è molto inferiore rispetto a quella tra la LSC e i dialetti campidanesi, accentuando così le critiche da parte dei parlanti campidanesi.
Per un approfondimento più tecnico sul tema vi consigliamo questa lettura: La Verità sulla Limba Sarda Comuna
La lingua di mesania
La limba de mesania, traducibile come "lingua di mezzo," è un insieme di dialetti romanzi che si colloca in una zona grigia tra le due principali varianti sarde: il logudorese e il campidanese. Per questo è caratterizzata di elementi di entrambe le varianti, ha una fonetica e vocalismo simili al logudorese, ma con tratti distintivi che affondano le radici nel campidanese.
Questa lingua è parlata in una fascia geografica che si estende dal medio-alto Oristanese fino ai confini della provincia di Nuoro, attraversando paesi della Barbagia centrale e il versante ogliastrino del Gennargentu, fino ad arrivare ai comuni del Mandrolisai.
Sebbene le parlate di queste zone non siano omogenei e presentino differenze significative a seconda della località, esistono gruppi di parlate che mostrano somiglianze marcate, specialmente tra le comunità vicine.
Questi tentativi di standardizzazione hanno suscitato resistenze, soprattutto nella parte meridionale della Sardegna, dove molti esperti e linguisti hanno visto in queste proposte una minaccia alla tradizione linguistica del campidanese. In risposta, la provincia di Cagliari ha elaborato nel 2015 un documento intitolato "Regole per ortografia, fonetica, morfologia e vocabolario della Norma Campidanese della Lingua Sarda", in cui si propone una norma campidanese sovra-dialettale come alternativa allo standard logudorese.
La Legge Regionale n. 22 del 2018, che disciplina la politica linguistica sarda, ha previsto la creazione di una Consulta de su Sardu con il compito di elaborare una proposta di standard linguistico che tenga conto delle macro-varietà storiche e letterarie, senza imporre una sola norma. Tuttavia, anche questa legge ha suscitato critiche, in particolare per la percezione che riproponga una visione divisiva del sardo in due grandi aree linguistiche e che possa ostacolare i processi di modernizzazione e standardizzazione della lingua.
La questione della standardizzazione della lingua sarda rimane controversa, con opinioni divergenti tra chi sostiene la necessità di un unico standard per favorire l'uso ufficiale del sardo e chi invece preferisce un approccio più inclusivo che riconosca e valorizzi le diverse varianti linguistiche dell'isola.
La tutela degli altri idiomi dell’Isola differenti dal sardo
La tutela degli altri idiomi della Sardegna, oltre al sardo, ha rappresentato uno dei punti centrali nel dibattito politico che ha accompagnato l’approvazione della legge del 2018 sulla politica linguistica regionale. Oltre al sardo, nell’isola si parlano idiomi come il gallurese, il sassarese, il catalano di Alghero e il tabarchino, tutti con una storia e una tradizione ben definite.
La proposta iniziale della legge del 2014 riguardava esclusivamente il sardo, come dimostrato dal titolo della proposta stessa: "*Norme volte ad incentivare l'insegnamento della lingua sarda*". Tuttavia, con il tempo e le pressioni politiche, la legge del 2018 ha incluso anche altre varietà linguistiche della Sardegna. L’articolo 2 della legge finale riconosce infatti come parte del patrimonio immateriale della Regione non solo il sardo, ma anche il catalano di Alghero, il gallurese, il sassarese e il tabarchino. Ciò ha segnato un passo avanti nel riconoscimento della pluralità linguistica dell’isola.
Nonostante questo riconoscimento formale, le polemiche non si sono placate, soprattutto perché vi è una distinzione normativa tra le lingue riconosciute a livello nazionale (sardo e catalano, secondo la legge 482/99) e quelle riconosciute solo a livello regionale (gallurese, sassarese e tabarchino). La legge 482/99 stabilisce infatti una gerarchia che ha creato tensioni tra coloro che vorrebbero un riconoscimento uguale per tutte le varietà linguistiche e il governo centrale, che teme conseguenze politiche ed economiche legate a un simile riconoscimento.
La legge del 2018, pur non sancendo esplicitamente la superiorità del sardo rispetto agli altri idiomi, presta maggiore attenzione alla lingua sarda, sia nelle misure adottate, sia nel numero di volte in cui viene citata nel testo normativo rispetto agli altri idiomi. Per esempio, il sardo è menzionato molte più volte rispetto al catalano o agli idiomi gallurese, sassarese e tabarchino, lasciando trapelare una preferenza implicita per la tutela della lingua sarda.
A livello mediatico, la legge è stata spesso rappresentata come se riguardasse unicamente il sardo, alimentando ulteriormente le polemiche. Alcuni articoli giornalistici hanno interpretato erroneamente la legge come un passo verso l’ufficializzazione del sardo come lingua della Regione, suscitando reazioni forti, soprattutto da parte delle comunità galluresi. In particolare, i galluresi hanno espresso disappunto nei confronti della legge, considerandola iniqua e discriminatoria nei confronti del proprio idioma, che ritengono debba essere riconosciuto come lingua e non come dialetto.
L'assemblea dei sindaci della Gallura ha chiesto maggiore chiarezza e una legge più equa che tuteli tutte le lingue dell'isola in modo bilanciato. Questa richiesta riflette non solo questioni linguistiche e culturali, ma anche economiche e politiche, poiché il riconoscimento come lingua minoritaria comporta diverse implicazioni amministrative e finanziarie.
In conclusione
Il dibattito sulla legge n. 22 del 3 luglio 2018 stato fortemente influenzato da questioni politiche e particolaristiche, piuttosto che da una seria riflessione sugli aspetti fondamentali della linguistica. La protezione di una lingua, infatti, non può essere solo una questione di riconoscimento formale o di azioni frammentate come l’assegnazione di risorse, ma deve considerare una strategia di lungo termine che includa politiche educative efficaci, la diffusione e l'uso quotidiano della lingua e una sensibilizzazione del pubblico sull'importanza della conservazione delle lingue minoritarie.
Un altro dato importante è lo scarso coinvolgimento dei media e dell’opinione pubblica. Le informazioni fornite sono risultate spesso vaghe e fuorvianti. La questione linguistica sarda, dunque, non è stata tradotta in modo chiaro per l'opinione pubblica, lasciando molti cittadini senza una reale comprensione delle implicazioni della legge o del suo potenziale impatto.
Al 2024 la legge rimane largamente non applicata. La Consulta de su Sardu non è mai stata convocata. La sensazione è che le lingue sarde non vengano prese sul serio, ma che venga piuttosto scelto un approccio “folk”, che mercifica gli idiomi sardi trasformandoli da lingue del popolo sardo ad una una marchetta utile solo nelle sagre e nelle varie ricorrenze culturali. Quando si parla di tutela delle lingue sarde, viene facile puntare il dito contro il colonialismo italiano che per decenni ha impedito alla cultura sarda di proliferare. Ma a questo punto la responsabilità cade sulla classe dirigente sarda e sulla sua mancanza di una forte volontà politica che miri a valorizzare il nostro patrimonio linguistico (e di conseguenza culturale).
Fonte: Atlas of the world's languages in danger (UNESCO)